Martina, 24 anni, di Galbiate (Lc)

Primo anno della laurea magistrale in Consulenza pedagogica per la disabilità e la marginalità, facoltà di Scienze della Formazione, campus di Milano

In Africa può anche succedere di passare un intero pomeriggio ad aspettare che la pioggia smetta e il temporale passi. Per poter finalmente giocare all’aperto. È così che io e Beatrice abbiamo trascorso l’ultimo pomeriggio a scuola, sedute sotto il portico della Bishop Cipriano Kihangire Nursery and Primary School, guardando la pioggia a catinelle bagnare la terra rossa e formare enormi pozzanghere.
Quell’ultimo pomeriggio non mi stavo annoiando perché la mia mente ripercorreva il mese trascorso in Uganda: pensavo alle voci dei bambini che, instancabili, chiamavano “Teacher Martina” o “Teacher Beatriz” per ricevere un po’ di attenzione, un sorriso, una stretta di mano. Ripensavo a quante soddisfazioni ci hanno dato questi bambini ugandesi che hanno tanta voglia di imparare e con entusiasmo accettano di giocare a qualsiasi gioco sia loro proposto.
Mentre la mia mente vagava, ho notato un bimbo seduto sotto il tavolo accanto al mio e gli ho proposto di avvicinarsi a me. Era timidissimo Victor, il bimbo di 7 anni che non ha accennato un sorriso e non sembrava nemmeno troppo contento di tornare a casa, il giorno seguente. Si è semplicemente accoccolato al mio fianco e abbiamo guardato la pioggia, insieme.

Mi è venuto in mente che nella borsa avevo il mitico “The Jungle Book”, che avevo usato anche a lezione. Ho deciso di sfogliarlo con lui. Abbiamo cominciato a guardare le figure, a commentare insieme la storia di Mowgli e piano piano anche gli altri bambini si sono uniti a noi, interessati ed entusiasti, come sempre, di scoprire qualcosa di nuovo, di conoscere, di fare domande e di ascoltare le risposte. Così s’è iniziato a fantasticare su Mowgli, il bambino cresciuto nella giungla e a viaggiare con la fantasia tra gli animali della foresta, quelli della savana, quelli che ci sono in Africa e quelli che ci sono in Italia. È stato un momento speciale che custodisco con affetto.
Ed è proprio con questa immagine che mi piace riassumere (se è davvero possibile riassumere un mese in uno scatto) il nostro Charity Work Program in Uganda perché è stato davvero un mese così, all’insegna della semplicità: la scuola BCK e i suoi mille bambini, che tutti i giorni ci aspettavano con impazienza davanti al cancello; il “field behind”, il campo da gioco di terra rossa, che era diventato il nostro spazio di sfogo “after classes”; il “big circle”, che non ci siamo mai stancati di fare durante il break con i bambini della Nursery, i sorrisi e gli occhi pieni di stupore dei nostri alunni, che non vedevano l’ora della “little Italian lesson”. Ma anche tante, tantissime, disordinate mani tese attorno a noi per cercare di prendere il primo palloncino, di afferrare il primo nastro colorato o di acchiappare la prima pallina che io e Beatrice tentavamo di distribuire per cominciare il gioco.
Certamente non tutto è stato facile e, alcune volte, la voglia di giocare dei bambini era talmente incontenibile che il caos si scatenava ed era difficile mantenere la situazione sotto controllo ma credo che anche questo mi sia servito per crescere come persona che come professionista.
Dal punto di vista professionale ho capito che, nel lavoro con i bambini, la differenza la fa la passione che ci metti e quanto credi in quello che fai perché solo in questo modo è possibile trasmettere qualcosa. Dal punto di vista umano, mi sono resa conto che vale sempre la pena spendersi nelle relazioni e che, come diceva un padre missionario a me caro, “dobbiamo lavorare sodo, non tanto per vedere risultati tangibili ma perché è bello gettare a piene mani il seme della Speranza. Questa è la Fede”. E quando si ha la fortuna di lavorare con i bambini la Speranza si tocca con la mano e con il cuore.

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