Michela

Quando si parte per l’Africa per la prima volta si è carichi di aspettative, molte alimentate dagli stereotipi su questo continente sconfinato. Nel mese che ho trascorso in Uganda queste sono state in parte confermate e in parte stravolte. Lo stesso parlare di Africa come fosse un’unica realtà perde qualsiasi senso nel momento in cui vivendoci seppur per un breve periodo ti rendi conto dell’immensa varietà che caratterizza ogni singolo paese, con le sue decine di lingue e tribù diverse, con sfumature differenti della pelle e dei colori della terra.

Appena arrivati si viene catapultati in un caos di rumori e voci, piccoli bus carichi di persone e “boda-boda” che sfrecciano senza ordine per le strade, venditori di frutta coloratissima, carne e oggetti di qualsiasi tipo ad ogni angolo, tutto immerso in un’aria mista di fumo e terra rossa.
Già nel tragitto dall’aeroporto a Luzira, la periferia di Kampala dove si trova il Benedict Medical Center, i miei occhi si erano riempiti di queste immagini che nelle settimane successive sono diventate familiari.

Quello che non mi aspettavo dal mese che ho trascorso al BMC è di ricevere così tanto.
Ho imparato molto grazie a tutto lo staff, dalla dottoressa Grace che fin da subito è stata disposta a insegnarci e metterci alla prova, fino a Mary e le altre ostetriche e agli infermieri.
Ormai tutti si erano abituati a veder girare per i corridoi dell’ospedale gli italiani vestiti di verde, all’inizio un po’ timorosi, mentre dopo un mese entravamo negli ambulatori con la sicurezza che saremmo stati salutati con un sorriso da chiunque stesse lavorando quel giorno.
Non la descriverei come una esperienza di volontariato perché per me è stato un vero tirocinio formativo, ho avuto modo di conoscere e imparare come vengono gestite malattie infettive e altre patologie difficili o impossibili da trovare nei nostri ospedali, ed è stato molto interessante vedere quale sia la visione della malattia e della vita in un sistema di valori così distante.
Sicuramente un’esperienza così cambia i tuoi paradigmi perché le possibilità sono talmente diverse che è impossibile non tornare a casa con una consapevolezza maggiore della nostra qualità della vita, e una sensibilità nuova. Probabilmente da certi posti una volta che li hai vissuti non ti stacchi mai, adesso non so dirlo, ma sicuramente è inevitabile che la mente da quel momento costruisca continui parallelismi tra il nostro e quel mondo.
C’è uno stereotipo sull’Africa che pur correndo il rischio di essere retorici non si può non riconoscere: le persone hanno una vitalità straordinaria, la vedi nell’energia con cui ballano, nella vivacità degli sguardi, nell’entusiasmo dei loro saluti.
Tutto è vita che non si ferma mai, che ti travolge e ti cattura, e allora è difficile riadattarsi una volta tornati alle facce tristi, stressate, alle lamentele continue di chi non si rende conto di quanto la semplice casualità di vivere a distanze diverse dall’Equatore possa cambiare tutto.

L’impatto con una realtà così lontana è stato più semplice grazie all’accoglienza che abbiamo ricevuto, all’ospedale e alla missione, dove ogni giorno venivamo accolti da father Isidore, Mama Angela e Joyce con la sua cucina.
Nonostante la nostra poca esperienza e i timidi tentativi di renderci utili, tutti ci hanno fatto sentire parte importante della comunità che abbiamo avuto la fortuna di conoscere e vivere per un mese, ricoprendoci di affetto e gratitudine che non potevano che essere ricambiati.

È difficile riassumere in qualche riga i momenti, gli incontri, le immagini che si avvicendano in un mese senza essere scontati: da un’esperienza così si torna con un bagaglio di emozioni a cui non si riesce a rendere pienamente giustizia, quasi non le vorresti raccontare per non banalizzarle, o forse per farle rimanere solo tue.

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