Quando Michela ha ricevuto la mail del Charity Work Program, da parte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha capito subito che quella era l’occasione che stava aspettando. Non un’esperienza qualunque, non semplicemente un viaggio lontano, ma una chiamata a mettersi in gioco.
La candidatura è partita in pochi minuti. Le paure, invece, ci hanno messo un po’ di più a venire allo scoperto: “Sarò pronta? Saprò essere utile?”. Domande normali, che molti volontari si portano nel cuore prima di partire. Ma il desiderio di esserci, di dare una mano, era più forte.
Il giorno della partenza è arrivato all’improvviso, come succede per tutte le cose importanti. Prima ancora di atterrare a Entebbe, l’entusiasmo aveva già vinto su tutto.
La prima alba africana
Dopo quasi ventiquattr’ore di viaggio, Michela e il suo compagno di avventura, Giuseppe, sono usciti dall’aeroporto insonni e carichi di aspettative.
Sulla strada verso il Benedict Medical Centre, quella che per molti volontari è la prima vera immersione nella vita ugandese, hanno visto la loro prima alba africana: una luce morbida che si posava su strade sterrate, baracche di lamiera, bancarelle di frutta, animali liberi, bambini scalzi che correvano tra i mezzi. Un impatto forte, che scuote e rimette tutto in prospettiva.
Al Benedict Medical Centre li accoglie il dottor Fred con una frase semplice, che è quasi un abbraccio: “Riposatevi, sarete stanchi”. Ma riposare è impossibile quando davanti si apre un mondo nuovo da conoscere.
Dopo poche ore, sono già in piedi a esplorare la clinica.
Mission home: dove ci si sente a casa
Per il pranzo vengono portati alla Mission home, il cuore caldo di Fondazione Italia Uganda. Qui Michela incontra ragazze e ragazzi sostenuti dalla Fondazione di padre John negli studi, ma anche volontarie appena arrivate, volti nuovi che diventano subito familiari.
“In quel luogo mi sono sentita accolta come in una famiglia.”
È così per molti: la Mission home è una porta aperta, un luogo dove le storie si intrecciano e ciascuno si sente parte di qualcosa di più grande.
Imparare a fare medicina con gli occhi e con il cuore
Per una studentessa di medicina come Michela, vivere un’esperienza in una clinica ugandese è qualcosa di potente. In un solo mese Michela ha visto patologie che in Italia non sono presenti, interventi eseguiti con strumenti essenziali, diagnosi formulate ascoltando e osservando il paziente prima di qualunque esame.
Eppure, è proprio lì che Michela ha trovato una medicina più umana: fatta di attenzione, professionalità e coraggio. Nella sala parto, nei reparti, negli ambulatori, ha affiancato medici preparati e appassionati, pronti a raccontare le difficoltà quotidiane, ma anche la forza della loro comunità.
Con loro è nato uno scambio reciproco: domande, confronti, sorrisi. Un incontro professionale e umano, in grado di arricchire entrambe le parti.
Acholi Quarters: “Non immaginavo questa realtà”
Tra i momenti più intensi, Michela ricorda la visita agli Acholi Quarters, una delle aree più povere di Kampala, dove Fondazione Italia Uganda opera da oltre 60 anni.
Baracche affollate, bambini che raccolgono detriti per venderli, latrine condivise da decine di famiglie: una realtà dura, che difficilmente si può comprendere senza vederla. “Non immaginavo potesse esistere una povertà così. Mi ha cambiata”.
Il parto di Florence: il momento che ha cambiato tutto
Tra le tante esperienze vissute, ce n’è una che Michela non dimenticherà mai.
È il suo primo travaglio. Mamma Florence sta per partorire, ma qualcosa non va: la sua bambina è in una posizione sfavorevole e serve un cesareo d’urgenza. L’ostetrica corre a cercare la ginecologa. Michela rimane sola con la donna, che urla, piange, la guarda chiedendo aiuto.
“Potevo solo tenerle la mano, darle forza, cercare di esserci.”
Passano minuti lunghi, intensi. Finalmente arriva l’équipe e Florence viene portata in sala operatoria. La bambina nasce sana.
Qualche giorno dopo, mentre Michela è nel reparto vaccinazioni. Florence torna per ringraziarla e le dice una frase che non si dimentica più:
“Ho deciso il nome della bambina. La chiamerò come te: Michela.”
Un gesto che contiene gratitudine, fiducia, riconoscimento e che vale più di mille parole.
Un mese che diventa un pezzo di vita
Michela è tornata in Italia con molto più di quanto abbia dato: una nuova consapevolezza, una visione più ampia del suo futuro da medico, un amore imprevisto per l’ostetricia, legami profondi e una storia che porterà sempre con sé.
Il suo racconto è la testimonianza concreta di ciò che accade quando si decide di partire: si scopre che il vero cambiamento non è solo quello che si lascia sul campo, ma quello che ci si porta dentro.
Perché, come diceva padre Giovanni: “La vita è un’avventura tumultuosa per fare del bene a tutti”.
Michela ha scelto di viverla. E il suo racconto ci ricorda che ognuno di noi può far parte di questa missione. Scrivici a volontari@italiauganda.org